Spesso, nel mio percorso professionale, mi sono chiesto come rendere le sessioni di coaching non solo efficaci, ma *davvero* trasformative. Non è raro assistere a incontri che, pur ben intenzionati, faticano a lasciare un segno profondo.
Ho notato che, con l’accelerazione dei cambiamenti nel mercato del lavoro e l’emergere di nuove esigenze, come l’attenzione al benessere e alla flessibilità – temi che spesso emergono anche dalle ricerche più recenti sul leadership, un po’ come le tendenze che si vedono navigando su Google, se mi capite – il modo in cui conduciamo queste sessioni deve evolversi.
È un errore pensare che un approccio standard possa funzionare sempre; l’esperienza mi ha insegnato che ogni coachee è un universo a sé e richiede un ascolto e una strategia personalizzati.
Dobbiamo andare oltre le metodologie classiche, integrando una comprensione più profonda delle dinamiche attuali, magari prestando attenzione alle soft skills del futuro o alle nuove sfide dello smart working, proprio come si fa quando si analizzano i dati più freschi per capire dove va il mondo.
Per questo, ho riflettuto molto su come possiamo affinare la nostra arte. Scopriamolo nel dettaglio qui di seguito.
L’Arte dell’Ascolto Profondo e Non Giudicante
Nel mio percorso, ho imparato che la vera magia di una sessione di coaching non risiede tanto in ciò che diciamo, quanto in quanto *profondamente* riusciamo ad ascoltare.
Mi è capitato più volte di vedere colleghi, e a volte anche me stesso all’inizio della carriera, cadere nella trappola di preparare risposte o soluzioni mentre il coachee sta ancora parlando.
Questo, credetemi, è il modo più rapido per erigere un muro invisibile. Ricordo una volta, con una giovane imprenditrice che stava affrontando un blocco significativo nella sua startup, la mia prima reazione fu quella di suggerire strategie di marketing innovative.
Ma poi, un piccolo campanello d’allarme nella mia testa mi ha ricordato: “Ascolta, prima di tutto.” Ho lasciato che parlasse liberamente, senza interruzioni, anche quando il suo discorso sembrava divagare.
È stato in quel divagare, nelle sue esitazioni e nei suoi silenzi, che ho colto la vera fonte della sua ansia: non era una questione di marketing, ma una profonda insicurezza legata al confronto con i suoi genitori.
L’ascolto non è solo sentire le parole, ma percepire il non detto, le emozioni sottostanti, le paure inespresse. È un atto di profonda presenza e rispetto, che permette al coachee di sentirsi finalmente compreso e al sicuro.
Senza questa base, qualsiasi tecnica o strumento di coaching rischia di rimanere in superficie, senza penetrare davvero.
1. Oltre le Parole: Catturare l’Essenza
L’ascolto attivo, quello vero, va ben oltre la semplice comprensione letterale delle parole. Significa sintonizzarsi con la voce, il tono, il linguaggio del corpo, le pause, i sospiri.
Quante volte ho visto i miei coachee rivelare involontariamente più attraverso un gesto nervoso o uno sguardo perso, che con un’intera frase! È come leggere un libro tra le righe, cercando di capire cosa sta veramente succedendo nel mondo interiore dell’altra persona.
Questo richiede una concentrazione ferrea e una capacità di mettere da parte il proprio ego, le proprie preconcetti e i propri consigli pre-confezionati.
È un’arte che si affina con la pratica e con un sincero desiderio di connettersi a un livello più profondo. Ho sempre pensato che ogni coachee sia un enigma da decifrare, ma non con la logica, bensì con l’empatia.
2. Il Silenzio Strategico: Un Alleato Prezioso
Ah, il silenzio! Quell’elemento così spesso temuto, eppure così potente. Molti coach, e anche io all’inizio, si sentono in dovere di riempire ogni pausa, ogni momento di esitazione.
Ma il silenzio, se usato strategicamente, diventa un invito, uno spazio in cui il coachee può riflettere, elaborare, e spesso, trovare le proprie risposte.
Una volta, durante una sessione, una manager mi parlò del suo burnout. Dopo che ebbe finito di esporre la sua situazione, invece di proporre subito soluzioni, rimasi in silenzio, mantenendo un contatto visivo e una postura aperta.
Dopo alcuni secondi che sembrarono un’eternità, lei stessa, con un sospiro, disse: “Sa, il problema non è il troppo lavoro… è che non so dire di no.” Quel momento di silenzio le aveva permesso di andare oltre la superficie e raggiungere la vera intuizione.
Personalizzare l’Itinerario: Ogni Coachee è un Unico Universo
Ho imparato che un approccio “taglia unica” nel coaching è come cercare di far indossare lo stesso abito a persone con fisicità completamente diverse: semplicemente non funziona.
La vera sfida, e il vero piacere, sta nel cucire su misura ogni sessione, ogni percorso, ogni obiettivo. Ogni individuo che si siede di fronte a me, o che incontro virtualmente, porta con sé un bagaglio unico di esperienze, convinzioni, paure e desideri.
Non esiste una formula magica universale. Ricordo un periodo in cui, influenzato da un seminario particolarmente stimolante, provai ad applicare la stessa metodologia a tutti i miei coachee.
Il risultato fu che alcuni volavano, altri si sentivano frustrati e non compresi. Fu una lezione dura, ma fondamentale. Da allora, la mia filosofia è diventata quella di un sarto: ascolto le misure, percepisco la texture del “tessuto” della loro vita, e poi disegno un vestito che calzi a pennello, valorizzando le loro forme e celando, o meglio, trasformando, le imperfezioni percepite.
Questo richiede un investimento di tempo iniziale significativo, ma i frutti che si raccolgono sono immensamente più ricchi e duraturi.
1. Analisi Preliminare: Scavare a Fondo
Prima ancora di pensare a obiettivi o strategie, la fase di analisi preliminare è cruciale. Non si tratta solo di compilare un questionario, ma di instaurare un dialogo profondo per comprendere il contesto di vita del coachee, le sue aspirazioni, le sue sfide passate e presenti.
Io spesso inizio con domande aperte che vanno oltre il problema esplicito. “Qual è il tuo sogno più grande, anche quello che ti sembra irrealizzabile?” o “Qual è stata la decisione più difficile che hai preso finora e cosa hai imparato?”.
Queste domande, all’apparenza semplici, aprono squarci sul loro mondo interiore e mi aiutano a capire le loro motivazioni più profonde e i loro schemi di pensiero.
2. Obiettivi su Misura: Non un Taglia Unica
Una volta compreso il coachee, si passa alla co-creazione degli obiettivi. E qui il “su misura” è fondamentale. Gli obiettivi non devono essere solo “SMART” (Specifici, Misurabili, Raggiungibili, Rilevanti, Temporizzabili), ma anche “S.P.I.R.I.T.” (Significativi, Positivi, Intrinseci, Responsabilità, Immaginabili, Tracciabili).
Un obiettivo imposto dall’esterno, o che non risuona profondamente con i valori del coachee, è destinato a fallire. La mia esperienza mi ha dimostrato che quando un coachee è entusiasta e sente l’obiettivo come *proprio*, le probabilità di successo si moltiplicano esponenzialmente.
3. Flessibilità Metodologica: Adattarsi al Flusso
Il percorso di coaching è dinamico. Non è una linea retta, ma un fiume con anse, rapide e momenti di calma. Essere rigidi con una metodologia predefinita è un errore.
Ho imparato a essere flessibile, a cambiare rotta se necessario, a introdurre nuovi strumenti o tecniche se percepisco che il coachee ne ha bisogno in quel preciso momento.
A volte, significa abbandonare un piano strutturato per seguire un’intuizione, o per permettere al coachee di esplorare un tema emerso spontaneamente.
Questa capacità di adattamento è ciò che rende il coaching un’arte viva e non una scienza rigida.
Il Potere Trasformativo dell’Intelligenza Emotiva
Se c’è un aspetto che nel tempo ho imparato a valorizzare come nessun altro, è l’intelligenza emotiva. Non si tratta solo di “sentire” le emozioni, ma di comprenderle, gestirle e usarle come bussole per la crescita.
Molti coachee che ho seguito, spesso persone di grande successo nel loro campo professionale, si trovavano bloccate non per mancanza di competenze tecniche, ma per un’incapacità di riconoscere e affrontare le proprie e altrui emozioni.
Un esempio vivido è quello di un CEO che, pur brillante nella strategia, faticava enormemente a gestire i conflitti interni al suo team. Parlavamo di numeri, di KPI, ma il vero nodo era la sua frustrazione quando le persone non si comportavano “razionalmente”.
Insieme, abbiamo iniziato a esplorare il mondo delle emozioni, le sue e quelle degli altri. È stato come accendere una luce in una stanza buia. Questo lavoro ha permesso non solo di risolvere i conflitti, ma di creare un ambiente di lavoro molto più sano e produttivo.
L’intelligenza emotiva è il motore che permette di navigare le complessità umane, proprie e altrui, e di trasformare le sfide in opportunità di apprendimento profondo.
1. Riconoscere le Emozioni: La Chiave del Cambiamento
Il primo passo è sempre il riconoscimento. Sembra banale, ma quante volte ci fermiamo davvero ad etichettare con precisione ciò che proviamo? Rabbia, frustrazione, delusione, gioia, ansia…
ogni emozione porta un messaggio. Insegno ai miei coachee a non giudicare le proprie emozioni, ma a “sentirle” e a interrogarsi sul loro significato. Spesso, attraverso esercizi di consapevolezza e di mindfulness, riusciamo a identificare schemi emotivi ricorrenti che erano rimasti inesplorati, e che rappresentavano veri e propri ostacoli alla loro crescita.
2. Gestire le Reazioni: Da Blocco a Risorsa
Una volta riconosciute, le emozioni possono essere gestite. Non si tratta di reprimerle, ma di scegliere come reagire ad esse. Molti cadono nella trappola delle reazioni impulsive, dettate dalla rabbia o dalla paura.
Lavoro con i coachee per sviluppare strategie di auto-regolazione, come la respirazione consapevole, la pausa riflessiva o la riformulazione del pensiero.
Ricordo un manager che, prima di ogni riunione difficile, si chiudeva in bagno per 5 minuti a fare esercizi di respirazione. Sembrava una sciocchezza, ma gli permetteva di entrare in sala riunioni con una lucidità e una calma che prima non aveva.
Feedback Costruttivo: La Bussola per la Crescita Autentica
Nel mio ruolo di coach, ho imparato che il feedback non è solo un momento di valutazione, ma un’opportunità d’oro per la crescita, sia per il coachee che per me.
Spesso si ha l’impressione che dare feedback sia come “giudicare”, e questo crea un’aura di tensione. Ho passato anni a perfezionare l’arte del feedback, trasformandolo da un potenziale ostacolo a un potente alleato.
La chiave è renderlo costruttivo, specifico, orientato all’azione e, soprattutto, radicato nella fiducia. Ho visto situazioni in cui un feedback mal posto ha bloccato un coachee per settimane, mentre un feedback ben dato ha sbloccato energie incredibili e accelerato la crescita.
È un po’ come aggiustare la rotta di una nave: se sai esattamente dove stai andando e cosa devi correggere, il viaggio diventa molto più fluido e mirato.
È un’interazione delicata, che richiede empatia e precisione, ma quando fatta bene, è un acceleratore di trasformazione.
1. Il Metodo “Sandwich”: Funziona Davvero?
Il famoso “metodo sandwich” (positivo, negativo, positivo) è un classico. Ma funziona sempre? Nella mia esperienza, a volte sì, altre volte può risultare un po’ artificioso, soprattutto se il coachee percepisce che la lode iniziale è solo un pretesto per arrivare alla critica.
Preferisco un approccio più diretto ma empatico, dove il feedback negativo, o meglio, “di sviluppo”, viene incorniciato da un contesto di supporto e da una chiara intenzione di aiutare.
Non ho paura di dire le cose come stanno, ma mi assicuro che la persona si senta comunque valorizzata e supportata nel processo. La trasparenza paga sempre di più della manipolazione sottile.
2. Feedback Orientato all’Azione: Non Solo Critiche
Un feedback che si limita a criticare senza indicare una via d’uscita è inutile, se non dannoso. Il mio mantra è: “Se individui un problema, pensa anche a una possibile soluzione o, meglio ancora, aiuta il coachee a trovarla.” Il feedback più efficace è quello che suggerisce passi concreti e realizzabili.
Invece di dire “Sei troppo disorganizzato,” potrei dire “Ho notato che la gestione del tuo tempo ti sta creando stress; potremmo esplorare alcune tecniche per strutturare meglio la tua giornata lavorativa?” Questo trasforma la critica in un’opportunità di miglioramento tangibile.
Ecco un esempio pratico di come un feedback efficace può essere strutturato:
Elemento del Feedback | Descrizione | Esempio Pratico (Italiano) |
---|---|---|
Specificità | Riferirsi a comportamenti o eventi concreti, non a tratti generali. | “Durante la riunione di ieri, hai interrotto Maria tre volte.” (Non: “Sei sempre maleducato.”) |
Tempestività | Dare il feedback il prima possibile dopo l’evento. | “Ti ho notato insicuro nella presentazione di stamattina.” (Non: “Parliamo di quella presentazione di due mesi fa…”) |
Orientamento all’Azione | Suggerire come migliorare o cosa fare di diverso. | “Potresti provare a fare una pausa di 5 secondi prima di rispondere.” (Non: “Devi essere più presente.”) |
Impatto | Spiegare le conseguenze del comportamento. | “Quando hai interrotto, ho notato che Maria si è chiusa e non ha più contribuito.” |
Bilateralità | Dare spazio alla persona di rispondere e riflettere. | “Cosa ne pensi di quello che ti ho detto? Ti risuona?” |
3. La Richiesta di Feedback: Invertire la Prospettiva
Un aspetto spesso trascurato è incoraggiare il coachee a chiedere feedback agli altri. Questo non solo aumenta la loro consapevolezza di sé, ma li rende proattivi nel loro percorso di sviluppo.
Li guido a chiedere feedback specifici, come “Qual è una cosa che potrei fare in modo diverso per essere più efficace nelle nostre riunioni?” invece di un generico “Come vado?”.
Questo sposta il potere dal dare al ricevere, rendendo il processo di crescita un’iniziativa condivisa e continua.
Creare Spazi Sicuri: Oltre la Superficie, Verso la Vulnerabilità
Se c’è una cosa che ho imparato in anni di coaching, è che la vulnerabilità è la porta verso la trasformazione autentica. E per essere vulnerabili, le persone hanno bisogno di sentirsi al sicuro, completamente al sicuro.
Non è qualcosa che si costruisce con un semplice “fidati di me”, ma con un lavoro costante e meticoloso, sessione dopo sessione. Ricordo una cliente, una brillante avvocatessa, che appariva sempre impeccabile e invincibile.
Per le prime sessioni, la sua reticenza a esplorare certe aree personali era palpabile. Non la forzai, ma continuai a offrire uno spazio di ascolto non giudicante, di accettazione incondizionata.
Piano piano, con un silenzioso sospiro, iniziò a rivelare le sue paure più profonde, le ansie legate al fallimento e al giudizio. Fu in quel momento che la vera crescita ebbe inizio.
La creazione di questo spazio sicuro non è solo una tecnica, è un atto di fede nel potenziale dell’altro, una dimostrazione che lì, in quella relazione di coaching, può essere se stesso, con tutte le sue fragilità, senza timore di essere giudicato o peggio, tradito.
È lì che le persone smettono di indossare maschere e iniziano a respirare veramente.
1. La Fiducia è Tutto: Costruirla Mattone su Mattone
La fiducia è la valuta d’oro nel coaching. Si costruisce con la coerenza, la confidenzialità, la trasparenza e l’integrità. Ogni promessa mantenuta, ogni informazione trattata con la massima riservatezza, ogni espressione di non giudizio, sono mattoni che erigono il muro della fiducia.
È fondamentale essere autentici e veri, non nascondersi dietro un ruolo. Mi è successo di condividere piccole fragilità personali, non per distrarre, ma per dimostrare che anch’io sono un essere umano, con le mie sfide, e questo spesso ha abbattuto barriere inaspettate.
2. L’Assenza di Giudizio: Il Vero Punto di Partenza
Eliminare il giudizio è forse l’aspetto più difficile ma cruciale. Non si tratta solo di non esprimere giudizi a parole, ma di non averli nemmeno nel pensiero.
Questo richiede un costante lavoro su se stessi, per riconoscere e mettere da parte le proprie inclinazioni, i propri pregiudizi. Quando un coachee sente, davvero, che non sarà giudicato per le sue scelte, i suoi errori o le sue emozioni, è lì che si apre completamente.
È un’energia palpabile, un’atmosfera di accettazione che permette alle persone di esplorare aree della loro vita che prima erano considerate “off-limits” anche a se stessi.
L’Impatto Duraturo: Misurare il Successo Oltre la Sessione
Un buon coach non si limita a condurre sessioni efficaci, ma si preoccupa dell’impatto a lungo termine. Ho visto troppe volte percorsi di coaching concludersi con un “grazie, è stato utile”, per poi scoprire che dopo qualche settimana, le vecchie abitudini o problematiche riemergono.
La vera sfida non è solo ottenere una rivelazione durante la sessione, ma tradurre quella rivelazione in cambiamenti concreti e sostenibili nella vita del coachee.
Per me, il successo non è misurato dal numero di sessioni vendute, ma dalla reale trasformazione che i miei coachee riescono a implementare e mantenere.
Questo richiede un’attenzione particolare al follow-up, al consolidamento delle nuove abitudini e alla creazione di un sistema di supporto post-coaching.
Il mio obiettivo non è rendere le persone dipendenti da me, ma renderle autonome e capaci di autocoacharsi nel tempo.
1. Dalle Intenzioni all’Azione: La Sfida Reale
Quanti buoni propositi svaniscono nel nulla? Tantissimi. Il divario tra l’intenzione e l’azione è un campo minato.
Nelle mie sessioni, mi assicuro che ogni intuizione o decisione sia accompagnata da passi concreti e realistici. Non basta dire “Voglio essere più assertivo”; dobbiamo definire “Cosa farai concretamente domani per essere più assertivo?
Con chi? Come lo misurerai?”. A volte, i coachee si sentono sopraffatti dalla vastità del cambiamento desiderato, quindi è mio compito aiutarli a spezzettare l’obiettivo in micro-azioni gestibili, celebrando ogni piccolo progresso.
2. Monitoraggio e Follow-up: Mantenere la Rotta
Il monitoraggio non è un controllo, ma un supporto continuo. Che sia tramite brevi messaggi, e-mail o sessioni di follow-up più diradate, manteniamo un contatto per assicurarci che le nuove abitudini si stiano radicando e per affrontare eventuali difficoltà che possano sorgere.
Questo aiuta a prevenire le ricadute e a mantenere alta la motivazione. È un po’ come avere un navigatore che ti corregge la rotta se devii, ma senza giudicare, solo per riportarti verso la tua destinazione.
L’Aggiornamento Costante: Il Coach che Non Smette Mai di Imparare
Nel mondo dinamico del coaching, fermarsi significa arretrare. Ho imparato, a mie spese, che le metodologie che funzionavano cinque anni fa potrebbero non essere altrettanto efficaci oggi, data la rapidità dei cambiamenti sociali, tecnologici e professionali.
L’idea di essere un “esperto” che ha imparato tutto è, per me, una trappola pericolosa. La vera expertise risiede nella capacità di essere un eterno studente.
Ricordo quando, dopo aver conseguito le mie prime certificazioni, mi sentii “arrivato”. Ma poi, un caso particolarmente complesso mi mise di fronte ai miei limiti, spingendomi a cercare nuove tecniche, a studiare psicologia positiva, neuroscienze applicate, e persino approcci meno convenzionali come il coaching somatico.
Questo mi ha permesso non solo di aiutare quel coachee, ma di arricchire enormemente la mia cassetta degli attrezzi. La crescita personale e professionale del coach è un investimento diretto nella qualità del servizio offerto.
Non si tratta solo di accumulare certificati, ma di un sincero desiderio di affinare la propria arte, di rimanere rilevanti e di offrire sempre il meglio a chi si affida a noi.
1. Formazione Continua: Non Si Finisce Mai di Crescere
La formazione continua non è un obbligo, ma una necessità e un piacere. Partecipare a workshop, leggere libri, seguire corsi online, specializzarsi in nuove aree (come il coaching per la leadership agile o il benessere aziendale) mi permette di rimanere aggiornato sulle ultime ricerche e tendenze.
È fondamentale esporsi a diverse filosofie e scuole di pensiero per ampliare la propria prospettiva e non fossilizzarsi su un unico approccio. Ho sempre investito parte dei miei guadagni nella formazione, considerandola il pilastro della mia credibilità e della mia efficacia.
2. Supervisione e Mentoring: Occhi Nuovi sul Tuo Lavoro
Anche i coach hanno bisogno di essere “coachi”. La supervisione e il mentoring sono per me momenti preziosi di crescita e riflessione. Discutere i casi più complessi con un supervisore esperto mi ha permesso di sbloccare situazioni, di identificare i miei “punti ciechi” e di affinare le mie strategie.
È un momento di profonda autocritica costruttiva, dove posso esporre le mie incertezze e ricevere una guida esterna e obiettiva. Ho sempre visto queste sessioni come un’opportunità per pulire lo specchio attraverso cui guardo i miei coachee, rendendolo più chiaro e meno distorto.
3. La Rete Professionale: Scambiare Idee, Elevare la Pratica
Far parte di una comunità di coach, partecipare a gruppi di studio, scambiare esperienze con colleghi è incredibilmente arricchente. Ogni volta che partecipo a un incontro con altri professionisti, torno a casa con nuove idee, nuove prospettive e una rinnovata energia.
Il confronto con chi fa il tuo stesso mestiere ti permette di vedere le cose da angolazioni diverse, di imparare dagli errori altrui e di celebrare i successi condivisi.
È un modo per non sentirsi soli in un percorso che, a volte, può essere molto impegnativo emotivamente.
In Conclusione
Il percorso di coaching, come ogni viaggio profondo, è un’arte intrisa di umanità, un continuo equilibrio tra tecnica e intuizione, tra guida e scoperta personale. Quello che ho cercato di condividere con voi non sono solo metodi, ma riflessioni nate da anni passati ad ascoltare, a connettere, a vedere fiorire persone. È un mestiere che richiede umiltà, passione e un desiderio inesauribile di crescere, sia come professionisti che come individui. Spero che queste parole possano illuminare il vostro cammino, sia che siate coach in erba, professionisti navigati o semplicemente curiosi del potenziale umano.
Informazioni Utili
1. Per un percorso di coaching efficace, scegliete un coach non solo per la sua certificazione, ma per l’empatia e la risonanza che sentite con lui. La relazione è il fondamento di tutto.
2. Abbracciate il processo con apertura. Le sessioni di coaching non sono lezioni frontali, ma spazi di co-creazione dove il vostro contributo attivo è fondamentale per il successo.
3. Non abbiate timore di mostrare la vostra vulnerabilità. È spesso proprio lì, nel non detto e nelle incertezze, che si annida la chiave della vostra più grande crescita.
4. Ricordate che il vero cambiamento richiede tempo e costanza. Le intuizioni nate in sessione sono solo l’inizio; l’applicazione quotidiana è ciò che le trasforma in realtà duratura.
5. Oltre al coaching, cercate sempre opportunità per la vostra crescita personale: letture, seminari, o anche solo un momento di profonda riflessione su voi stessi. La crescita è un viaggio continuo.
Riepilogo Punti Chiave
Il coaching autentico si basa sull’ascolto profondo e non giudicante, sulla personalizzazione dell’itinerario e sull’integrazione dell’intelligenza emotiva. Il feedback costruttivo e la creazione di spazi sicuri sono pilastri per la trasformazione. Infine, l’impatto duraturo del coaching e l’aggiornamento costante del coach garantiscono un percorso di crescita sostenibile e di alta qualità.
Domande Frequenti (FAQ) 📖
D: Come si può davvero rendere una sessione di coaching non solo efficace, ma profondamente trasformativa, come si accennava?
R: Ah, questa è la domanda da un milione di euro, vero? E te lo dico per esperienza diretta: non basta spuntare le caselle di un protocollo. Per me, la vera trasformazione accade quando si scava più a fondo, quando si va oltre il problema dichiarato e si tocca il “perché” emotivo, quel nervo scoperto che spesso il coachee stesso fatica a riconoscere.
Ho imparato che la chiave è creare uno spazio di fiducia così radicale che permetta alla persona di abbassare tutte le difese. Ricordo una volta un manager, un uomo tutto d’un pezzo, che si presentò con obiettivi chiari di “migliorare la delega”.
Ma sessione dopo sessione, ascoltando davvero, prestando attenzione alle sue espressioni, a quella sottile tensione nella mascella ogni volta che parlava di “controllo”, emerse un’ansia profonda di perdere il suo ruolo, un timore irrazionale di non essere più indispensabile.
Quando abbiamo lavorato su questo, e non solo sulla delega tecnica, il cambiamento è stato sismico, non solo nel suo lavoro ma nella sua vita. È lì che la trasformazione accade: quando si smette di curare il sintomo e si va alla radice.
È un mix di ascolto empatico, intuizione, e un pizzico di coraggio nel porre la domanda giusta al momento giusto.
D: Vista l’accelerazione dei cambiamenti e le nuove esigenze come il benessere e la flessibilità, come possiamo integrare questi temi emergenti nell’approccio al coaching?
R: Bella domanda! Non è più possibile fare finta che questi temi siano solo “extra” o tendenze passeggere. Sono la realtà quotidiana di tantissime persone, e la sento fortissima ogni volta che mi confronto con i coachee.
Penso alla fatica di conciliare la vita familiare con lo smart working che a volte sfuma i confini tra casa e ufficio, o alla ricerca di un benessere che va oltre il classico “staccare la spina” il weekend.
Per me, integrarli significa prima di tutto riconoscerli come parte integrante della persona, non come un problema da risolvere “a latere”. Invece di chiedere “Qual è il tuo obiettivo professionale?”, a volte inizio con “Come stai veramente in questo periodo?
Cosa ti sta pesando di più, qui e ora, al di là del lavoro?”. Spesso, il benessere è la fondamenta su cui si costruiscono tutti gli altri successi. Se una persona è esausta, demotivata perché non vede un equilibrio, parlare di performance è quasi inutile.
Si tratta di aiutare il coachee a definire i propri confini, a capire cosa significa per lui la flessibilità e come può negoziare il proprio spazio – che sia con il datore di lavoro o con se stesso.
Si lavora sulla resilienza, sulla capacità di adattamento, e sul coraggio di chiedere ciò di cui si ha bisogno. Non è un cliché, è un’urgenza.
D: Si dice che ogni coachee sia un universo a sé. Come si fa a superare le metodologie classiche per offrire un percorso davvero personalizzato, specialmente considerando le sfide attuali come le soft skills del futuro o lo smart working?
R: Eccoci al cuore della questione! Se c’è una cosa che l’esperienza mi ha urlato in faccia, è che non esistono due persone uguali, e quindi non possono esistere due percorsi di coaching identici.
Superare le metodologie classiche non significa buttarle via, ma usarle come una cassetta degli attrezzi da cui pescare all’occorrenza, adattando ogni strumento alla mano che lo impugna.
Significa soprattutto ascoltare attivamente e con curiosità, senza pregiudizi o la fretta di incasellare la persona in una categoria. Ricordo una volta, con un giovane professionista che era sempre stato bravo con i numeri ma faticava terribilmente nelle presentazioni, pensavo subito a tecniche di public speaking.
Invece, esplorando, abbiamo scoperto che il vero blocco era la paura del giudizio, radicata in esperienze scolastiche passate. Non gli servivano slide perfette, ma una riscoperta del suo valore intrinseco.
Per quanto riguarda le sfide attuali, come le soft skills o lo smart working, il mio approccio è quello di renderle “vive” nella sessione. Chiedo esempi concreti di situazioni, di come il coachee si sente, cosa vorrebbe provare.
Magari faccio role-playing su una conversazione difficile con un collega che lavora da remoto, o esploriamo come definire una routine che permetta di “staccare” davvero anche se il PC è in salotto.
Non è un modello predefinito, è un viaggio co-creato, passo dopo passo, dove il navigatore è il coachee e io sono lì per illuminare la rotta e, se serve, per spingere un po’ sul remo.
L’autenticità e la flessibilità del coach sono fondamentali per creare quella connessione che permette al coachee di fiorire nel suo modo unico.
📚 Riferimenti
Wikipedia Encyclopedia
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